Davide Ambu istituito accolito 

«Fa’ che, assidui nel servizio dell’altare, distribuiscano fedelmente il pane della vita ai loro fratelli»: queste sono state le parole della liturgia che S.E.R. Card. Louis Antonio Tagle, domenica 19 marzo [2023], ha rivolto a me e a due miei compagni.

Durante la liturgia, celebrata nella Cappella dell’Almo Collegio Capranica, dal tono sobrio e ma lietamente familiare, sono stato istituito accolito, insieme a due miei compagni di cammino, Giacomo Gliottone (Diocesi di Teano-Calvi) e Claudio Ottonello (Arcidiocesi di Sassari). La preparazione al ministero, accompagnata dai formatori, è stata incentrata sulla figura dell’accolito quale ministro legato all’Eucarestia e alla testimonianza espressa dalla simbologia della luce (come emerge dalla monizione del rito De ordinatione acolythorum del Pontificale Romanum di Trento: «Non enim Deo placére potéritis, si lucem Deo mánibus præferéntes, opéribus tenebrárum inserviátis, et per hoc áliis exémpla perfídiæ præbeátis»). E proprio sulla luce era incentrata la liturgia del giorno della mia istituzione, IV domenica di Quaresima/A: l’invito paolino di essere luce nel Signore (Ef 5,8) può realizzarsi vivendo il proprio battesimo (prefazio), fondamento di ogni ministero, se si guarda con lo sguardo del cieco guarito da colui che è luce del mondo (Gv 9).

Nella preparazione prossima, mi sono soffermato sul significato dell’accolitato, partendo proprio dalla parola “accolito”. Fin da subito l’origine del termine mi ha dato una linea di lettura del ministero: il termine “accolito” è la traduzione italiana del latino acòlythus, a sua volta traslitterazione del greco ἀκόλουθος, della stessa radice del verbo ἀκολουθέω, che significa “seguire”. La traduzione latina letterale sarebbe sequens: è proprio il termine usato da papa Caio († 296) e che ricorre nel Liber Pontificalis attribuito a papa Vittore (189-199) («Hic fecit sequentes»). L’accolito dunque è un “sequens”, in inglese si direbbe un “follower” di Cristo; questa parola d’oltre Manica mi ha riportato subito all’episodio della chiamata di Matteo, ben reso nella serie tv The Chosen: Gesù sceglie Levi dicendo «ἀκολούθει μοι», «seguimi», «follow me» (così riportano tutti e tre i sinottici: Mt 9,9; Mc 2,14; Lc 5,27). Questo mi ha reso ulteriormente consapevole che il ministero ricevuto è una tappa (non un gradino) del cammino di sequela, che si configura con una “vicinanza” maggiore al Maestro: nell’Eucarestia e nella Chiesa, nello specifico verso i più deboli e poveri.

E proprio su questa “vicinanza” ha ruotato poi la mia preparazione imminente. Due settimane prima dell’istituzione, un pesante lutto ha colpito Giacomo, un mio compagno di classe e di ministero; la vita, dal corso non sempre prevedibile, talvolta mette di fronte a eventi drammatici che non possono non toccare il cuore dell’uomo: il dolore forte di un amico che piange suo fratello non può lasciare indifferenti, se è vero che siamo corpo mistico di Cristo (dove il dolore di un membro è il dolore di tutti). Così, in queste circostanze dove le tenebre sembrerebbero prevalere, mi sono tornate in mente alcune parole di P. Giovanni Maria Rossi: «l’amore dona la più umile consolazione a gente che è distrutta dall’angoscia e dal dolore».

Da allora ho vissuto la preparazione e sto iniziando a vivere il ministero dell’accolitato come “ministero di prossimità”: lo stare accanto a chi soffre, provando a portare un po’ della luce del Signore. Perché, se è vero che l’opera dell’accolito non si limita all’ambito esclusivamente rituale (portare i ceri, distribuzione dell’Eucarestia) – come si afferma nei praenotanda al Rito di Istituzione dei ministeri – e se è vero che dovrebbe amare il Corpo mistico di Cristo, specialmente i deboli, i poveri e i malati – come ricordano la monizione del rito e Ministeria quaedam – allora l’accolito dovrà essere ministro di prossimità (il documento della Cei I ministeri nella Chiesa parla di «ministero dell’Eucarestia e della carità»). Nei giorni precedenti all’istituzione mi sono interrogato parecchio sul servizio ai deboli, ai poveri e ai malati e su come lo stessi vivendo; in questo sono aiutato da alcuni spunti fornitimi da P. Pietro Bovati alla lectio divina quaresimale, che ha sottolineato come il servizio non è impegno ma dono (non si sceglie, si riceve) ed è più ampio di quello verso la povertà materiale; così mi sono accorto che stavo scegliendo le povertà da servire: i poveri della mensa del compianto don Pietro Sigurani presso cui avrei voluto fare servizio in quaresima, gli ammalati dell’ospedale Cottolengo di Torino, dove dovrei andare quest’estate. Ma forse c’erano altre povertà, infermità e debolezze che il Signore voleva donarmi, più vicine del Caravita o di Torino. E allora, se l’accolito riceve il servizio come un dono, non può non imitare il buon samaritano che si curva su tutte le ferite e le sofferenze umane, comprese quelle che vivono a poche porte di distanza da quella di camera mia.

Davide Ambu

 

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